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Connessione e Linguaggio

Categoria: arte Pubblicato: Martedì, 02 Novembre 2010

Connessione e linguaggio

 

 

 

 

Non sarà certo in questa sede che si possono risolvere i problemi del linguaggio, qualora ve ne siano, ma, avendone io la mira di discuterne, ne approfitto per il particolare interesse che suscita il discorrere di questo sulle pagine di “Cultura”. È di questi giorni la rassegna presso il Fondo Verri di due giovani presenze nel campo del linguaggio. 16 i testi di Teresa Lutri e 14 quelli di Francesco Aprile. Sono due presenze di segno scritto che hanno ormai gambe per camminare da sole e non essere più megafoni di alcuno. Quel che interessa è la rielaborazione del sistema di punteggiatura oggi in uso. Apparato pausativo così amano definirlo. Un riepilogo della punteggiatura e sua sintassi richiamata dalla prosa spontanea ed in un continuum fra oggetto e corpo nella definizione di: «fra nervi carne e muscoli del corpo. Il corpo. Oltre il punto.» Tre interpunzione secche private della loro logica di “soggetto - predicato - complemento e poi  - il punto”.

Un altro formarsi di linguaggio interessante è apparso sulle stesse pagine de ilpaesenuovo, in un titolo recitato: ” Fra identità inventate e (in)coscienza d’essere”, riferite ai Tarantismi pre-meditati con un colore pop alla Andy Warhol ed in un testo di Federico Capone. Ho ravvisato un’ identità culturale interessante anche per un altro fenomeno, quello della diffusione di un linguaggio sonoro-gestuale in una musica di Terra d’Otranto. Se ne potrà parlare in seguito riconducendolo ad altre totalità simultanee. In queste presenze ancestrali di “oltre il punto” e di “(in)coscienza d’essere”, essendo un ondivago del gesto ai primordi, non posso che affiancare anche il mio vagabondare dal suono all’immagine nei primordi e viceversa . Pertanto è del linguaggio, di uno in particolare, che voglio parlare. Desidero poter descrivere quello relativo all’uso dell’onomatopea o meglio del suono fra segno ed immagine. Dal triangolo di Ogden e Richards, la definizione di una "creazione di un nome" è il risultato di una parola in un sistema linguistico. La Singlossia è uno di questi termini, una creazione di nome, l’intento di una nominazione. Questo intento, come in tutti i vocaboli, è riconducibile all’espressione ed è composto da un significante e da un significato. L’idea che lo determina, e, che altrettanto ne deriva, è il rimando al referente. In questo caso è il suono. Si tratterebbe, quindi, di una "trascrizione di un suono", la cui connessione è tra significante e referente. Fin qua niente di eccezionale, tutto ricade nella norma e si riconduce alla pratica. Infatti il termine Singlossia è la congiunzione di una voce dotta composta tramite la preposizione greca ù - sin – e , dativo di  - lingua – , e ne indica la sintesi visiva e sonora di un linguaggio visivo e verbale. Da ciò, qualunque sia la naturale connessione che si abbia fra oggetto e parola, questa non può appartenere che ad una sola piccola parte della fabbrica del Linguaggio. Tra le idee della mente ed i suoni articolati, troverete sempre tale connessione e se ne vedrà sempre un sistema generale tra una siffatta connessione naturale ed una connessione fra parole ed idee. Ossia le diverse forme dei suoni articolati sono tra loro scelti per condurci, a farci comunicare un’idea. Le espressioni delle nostre idee si esprimono dunque con il Linguaggio.

Il mezzo praticato con certi suoni articolati, che si adoperano come segni, sono per l’appunto le stesse idee. Con questa precisazione intendo specificare i suoni emessi e s'intenderanno come le modificazioni, inflessioni, accenti della voce formati per mezzo della bocca e dei suoi vari organi, i denti, la lingua, le labbra ed il palato. Applichiamo sempre e comunque un metodo artificiale per comunicare un’idea cercando di portarla sempre, con un adeguato linguaggio, alla più alta perfezione. Il mezzo linguaggio diventa così il veicolo. Necessità, questa, per dar luogo ad una corretta interpretazione è l’assegnazione dei nomi da assegnare a tutti gli oggetti di cui amiamo circondarci, riconoscerne la forma. Tutte le relazioni e le differenze dei suoni articolati passano fra il riconoscere questi oggetti e i loro fonemi e, tanto più lo sono tra loro vicini, tanto più, di seguito, sono descritti dall’invisibile riconoscimento dell'animo. Si direbbe che questi riconoscimenti a noi si avvicinano e vengono resi altrettanto intelligibili. Persino le possibili astrazioni sono e divengono le nozioni per riscoprire ed immaginare nuove creazioni ad esse relazionate, sono così trasmesse e trasfuse in un'altra immagine. Hugh Blair scriveva nelle sue lezioni di retorica e belle lettere nel 1801: «Andavano gli uomini allora erranti e dispersi; non eravi società, fuorché quella di famiglia; e la società di famiglia era pure imperfetta, poiché il lor metodo di vivere colla coccia o la pastura delle gregge dovea frequentemente separarli l'uno dall'altro. In tale stato, mentr'erano gli uomini sì divisi, e sì raro il loro commercio, come mai alcuna forma di suoni o di parole potè fissarsi per generale accordo a significare le loro idee?» Si evince l’impossibilità di una comunicazione conclusa, di una necessità a dar luogo ad una qualsiasi forma di linguaggio o in grado di poter intrattenere, qualora ne manchi l’aggregazione, con un nuovo iter. L'onomatopea, per prima, non poteva, né ancor oggi può aver luogo se la trascrizione fonica di un qualsivoglia rumore non veniva, viene codificata attraverso i fonemi di un sistema linguistico, e, se ciò accadeva, accade, era nel solitario disbrigo della pratica della sopravvivenza o di una voce irraggiungibile. Qualsiasi "voce imitativa" o di "interiezione" era, è fra l’uomo errante e le sue cose. Il valore evocativo delle onomatopee era ed è l’emblematico risultato di un fatto accaduto. Dal fatto, successivamente, poteva accadere il riporto. Dal riporto, la possibilità di una decodificazione. La figura assegnata al termine "romori" anziché "rumori", del termine (in)(personale) anziché impersonale (come derivazione di svuotamento del personale con la pratica della immissione-saturazione di un valore), la parola (mas[sa)cro] anziché o al posto di massacro o massa o sacro. L’ [(in)coscienza)] in cui una (in) di troppo non conduce all’errore-saturazione, ma alla restituzione di un valore, ed ancora il termine di [(Pecula)ri(età)] anziché di Peculiarità così come scritto in una NewPage. A quell’idea s’appoggiava la somiglianza del suono con un altro suono, del segno con un fonema sempre più definito, diverso e collimante. Nell’onomatopea, se il termine “cloppete” di Palazzeschi è stato appoggiato, riferito al coadiuvare ed è un suono, questo si arricchisce con la respirazione profonda e l’utilizzo del labbro. Mentre viene pronunciato il suono s’aggiunge ai denti, alla lingua, alle labbra ed al palato, lo si sostituisce con un costante sovrapporsi ed addizionarsi. Un modo semplice per ottenere una vera e propria Pluri-glossia è quanto, con la pioggia nel pineto d’Annunzio voleva creare per un effetto estetico; con quanto il Pascoli declamava nella poesia “Valentino“: «Un cocco! / ecco ecco un cocco un cocco per te!»; con quanto Apollinaire, nello strumento calligramma, aggiungeva ed otteneva in un effetto grafico in un rimando. La Singlossia è dunque il riproporre un Palazzeschi, un Apollinaire o un Marinetti rinnovato nell’onomatopea con il diacronico. É tutto questo e non altro. É “La fontana malata” con il suo «Clof, clop, cloch,/cloffete,/cloppete,/(…)chchch …». Si porta indietro per un attimo il Tempo, lo riportiamolo alla nascita pensiero (in)perfetto, all’origine del Suono-Parola. Ripercorriamo gli ostacoli e i processi. Siamo ormai abituati ad assistere ai progressi scientifici e alle cosiddette invenzioni estetiche dell’arte, ma spesso accade di non renderci conto dei gradini, delle separazioni, dell’inizio e del fine (qui il termine “fine” è il “non fine ultimo”, lo stesso inizio). Decidiamo quasi automaticamente di accettarlo come avvenimento dovuto. Se confrontiamo l’aspetto sintattico e morfologico in una frase pronunciata nei secoli addietro, (verificatelo con quanto ho riportato nel testo traduzione del Soave), e se, responsabilmente, ne siete predisposti, vi accorgerete, immediatamente, che si esamina la frase secondo la prospettiva del presente, eludendo così l’analisi sincronica. Vi accorgerete che l'oggetto parola è divenuto per voi così familiare, tanto comune, che lo guarderete-leggerete senza meravigliarvene. In Arte, un Artista del nostro tempo, Christo Vladimirov Javašev di origine bulgara, nato a Gabrovo, ci ha dimostrato, con l’impacchettamento delle solenni Mura Aureliane a Roma ed in altri oggetti posti qua e là nel mondo, che il colore è un’intuizione totalmente diversa tanto da sembrare un mega oggetto d’arredo urbano o d’arredo planetario. Il Suo proposto stava e sta lì nell’immaginario a ricordarci che il tempo esiste ed è diacronico nei linguaggi; è l’identica cosa di un qualsiasi rumore anche se criptico o male interpretato. I deboli principi li ha fatti divenire ostacoli e motivo di grandissimo stupore. Ci ha portato al mirare ed il tutto lo ha ricondotto all’origine. Ora, con quale autorità poté propagarsi nelle tribù e nelle famiglie dell’uomo primitivo un linguaggio? Parrebbe che, per fissare e propagare una Lingua, si ci dovesse, dapprima, raccogliere in un considerevole numero di uomini, e che la società, così costituita, si andasse via via a determinare in uno stadio molto avanzato di esperienza, e che quest’ultima divenisse luogo di comune interesse. Tutto l’iter per poter dar luogo al linguaggio e a comunicarsi i bisogni, soprattutto le idee. Il suono, certamente, l’accomunava. I primi elementi di un linguaggio sono quindi suoni articolati. L'ipotesi, non nuova, e che l'origine della o delle lingue non siano state di origine divina (menomale). Anche il principio della socievolezza non è un principio “divino”, ma una necessità. È lo stesso Dio a dirlo (menomale), così come riferito nella Genesi. È detto, apertamente, che Dio abbia dato la facoltà di inventare un linguaggio iniziando con l’assegnazione dei nomi. Avremmo avuto quindi il primo “apparato pausativo”, la prima “(in)coscienza d’essere”, la prima "creazione di un nome", la conseguente nominazione privata dapprima del costrutto. Suppongo vi sia stato nella costruzione del linguaggio il suono come prima metafora della vita. Da ciò il grido-rumore ed il timore, l’avvertimento, il segnale, l’interposizione, la favella onomatopeica come comunicazione, imitazione del suono del nome e della natura dell'oggetto nominato. Da lì il pittore graffitaro o petroglifa scultore per rappresentare le immagini adopererà il colore corrispondente all’oggetto; per rappresentare un segno o un volume adopererà la pietra. Suppongo non potesse fare altrimenti. Se amava far scaturire l'idea della cosa o nome che cercava d'espri-mere, niente da allora fu arbitrario né senza alcun fondamento o ragione. Il supporre divenne un effetto da causa. L’immagine del morso del ragno e sue conseguenze sintetizzano egregiamente tutto questo e si fa benissimo oggi ad evocare, a capire cosa abbia indotto, induce a recepire un gesto associato in maniera diacronica ad un segno, ad un suono, ad un’idea. Altrettanto è l’introduzione della sostituzione sistematica della punteggiatura classica con modalità di una perfetta propaggine del linguaggio corpo. Si pensi al gesto-suono-segno del maestro d’orchestra nell’indicare l’abbassare di un tono o il prolungamento di un suono in uno strumento. La pausa, l’annullamento o il prolungamento è, e diviene anche il segno di Francesco Aprile, l’uso dell’underscore (il trattino basso _ ). La Singlossia è appena cominciata. Ricondursi all’origine attraverso il presente non è indietreggiare, ma trovare la forza di modificare il linguaggio, almeno quello derivabile dal triangolo di Ogden e Richards.

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