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Il Cimitero di Praga

Categoria: libri Pubblicato: Mercoledì, 05 Gennaio 2011

BelloBrutto

 

La “Congiura” nel secolo barbuto ed oltre, nell’arte del Segno.

di Francesco Pasca

 

«Non c'è che parlare di qualcosa per farlo esistere».
Ci risiamo, ecco “Il cimitero di Praga” (Bompiani, pagg. 528, € 19,50).
Verrebbe subito da pensare a Vero e Falso, a Bello e Brutto, la mia passione. Quei termini li intravedo, li leggo sin dalle prime battute e non sono così separati e tali da rendere la certezza di un’antinomia, né per creare un ossimoro. Credo siano solo giustapposti, in un FalsoVero ed in BruttoBello. Non sono disconnessi, ma uniti.

Eco nella sua ultima fatica è certo di averci già abituati a questa norma schizofrenica della letteratura in cui il termine nobile di classico è anche superbestseller, quanto di più avvicinabile ad una vicenda di consumo, di attualità, di fiction. Ho avuto già modo di tracciare e di definire la sua neo-narrativa nel 1980, proprio con “Il nome della rosa”. È stato per me molto importante. Era anche l’anno della nascita della Singlossia tant’è che Eco, da curioso filosofo e semiologo, se ne interessò se pur per un breve periodo per poi andare ad intraprendere un decorso decisamente affine. Con la semiologa Rossana Apicella avevamo avuto modo di tracciarne gli inizi di quell’affinità. Per onor del vero fu lo stesso Umberto Eco, in una bustina di Minerva, ad indirizzarmi a tracciare, poi, questa dicotomia con il superamento di un’era della scrittura, mirabilmente ricondotta ad un’associabilità di una medievale scrittura amanuense con quella appena nata dei Word Processor, della scrittura digitale, della capacità di manipolazione di un testo, di una costruzione credibile di un racconto.
Di seguito ne ebbi, ne ho oggi la certezza. Il pendolo di Foucault, L'isola del giorno prima, Baudolino e La misteriosa fiamma della regina Loana e le numerose opere di saggistica fra cui, appunto, Storia della bellezza e Storia della bruttezza sono l’esempio lampante che in letteratura accadono sempre cose strane. Dividere i commentatori è la norma. Che sia Umberto Eco a dividere è altrettanto normale perché ingombrante non solo nella stazza. Non vi sono “pesi” in letteratura, né macigni insormontabili, vi è solo la volontà di chi scrive. Se non vogliamo fare della Cultura un cinismo becero, è solo l’opportunità di chi legge.
Chi legge Eco, almeno con lo stesso impegno di come io spero venga letto, non s’addentra nel racconto che è scorza, necessità di far scorrere un filo logico, di far comprendere un dialogo fatto di tempo. Il racconto di Eco è tutt’altro. Con l’uso “perverso” che non è della sola matematica, ma soprattutto della letteratura. si costruisce il racconto ed è da quella costruzione che occorre partire.
Il racconto appassiona se va letto e ricostruito pezzo dopo pezzo come l’Autore ha fatto nel scriverlo.
Per capire meglio cosa voglio intendere cito e scelgo tre personaggi della cultura contemporanea: Eco, Bartezzaghi e Calvino. Sono questi tre grandi manipolatori del testo. Sono come si ama dire, “di-versi”, ma profondamente uguali.
Per avvalorare che, curiosa e stimolante è la risposta che Eco dà alla domanda: "Che titolo avrebbe oggi il Don Chisciotte se l'avesse scritto Italo Calvino?", credo che non sia meraviglia, ma riprova di genialità, se la risposta data è: “Il cavaliere dei mulini inesistenti”.
A distanza di anni, infatti, ho veduto il semiologo Eco, affascinarsi per la numerologia. Ne è prova il DVD edito da "Le Scienze" per la serie "Mentimatematiche - i grandi incontri del Festival della Matematica". "Usi perversi della Matematica".
L’uso di quel DVD per me è stato una lectio magistralis dello scrittore ieri barbuto, magistralmente ricordato coi tratti di Tullio Pericoli e con lapis corto e appuntito, letterariamente graffiante. È stata la dimostrazione capace di saper rendere un argomento affascinante e coinvolgente con lo strumento di analisi e d’uso nel corso dei secoli, cioè, del servirsi della matematica e renderla, guarda caso, “Opinione” sia religiosa che laica; discordanza, quest’ultima, della famosa frase: “la matematica non è un’opinione”.
In quella ricerca parrebbe che anche la sua letteratura non sia, non deve essere un’opinione.
I “giochetti matematici” tradotti in addomesticamenti della realtà per far quadrare i conti con il quotidiano, nonché ricondurli con facezia in vera e propria ironia sono il FalsoVero, vedi le interessanti ironie delle principali sciocchezze numerologiche di quell’undici di settembre. Né, tantomeno, mi ha mai meravigliato la sua propensione all’esoterico.
Eco fa una lettura dell'Ultima cena di Leonardo da Vinci, che come è noto raffigura l'ultima cena di Cristo con gli apostoli, e riesce a dimostrare che quel dipinto nasconde la cifra 666, il numero del Diavolo.
Affabulare nel Segno è tutto questo, ed Eco, per questo è, non molto simpaticamente, per molti “Grande”, è l’eccesso della parola ricondotta al segno.
È Trovato ingombrante nei confini letterari e, spesso nella cultura “dominante”, l’intento di attraversare più territori ne fa di Eco una figura scomoda, “tuttologa” e per questo a volte non gradita. Ma Eco ama le miserie umane come gli stessi intrighi e, come possibile freudiano, traccia la sua “invidia del pene”. Non è citato a caso anche se il personaggio Simone Simonini, alias SS, si concentra sessualmente in pratiche onanistiche e, a dirla alla Eco, “Non scopa!”
Avuta ancora una volta la certezza che il Segno è in generale "qualcosa che rinvia a qualcos'altro" (aliquid stat pro aliquo) Eco dà l’opportunità di andare oltre l’ingorgo irrazionale della modernità e di studiare, così, i fenomeni di significazione e di comunicazione.
Eco è il prodotto di questo schema, di questo modo di unire e fondere le realtà. D’altro canto è lo stesso Calvino, che si racconta e ci spiega come nasce un testo come si “confeziona”. È lo stesso Bartezzaghi, che ci invita con la sua logica a completare un puzzle di parole. È Eco, che ci racconta in maniera limpida le fonti e come i fatti si agglomerano come magiche reazioni chimiche intorno a quelle fonti.
Il paradosso del FalsoVero conduce inesorabilmente al Vero e, come lui ben dice, chi non vuole avvicinarsi a quel Vero neo-costruito ha problemi soltanto con la sua coscienza.
In occasione dell’atteso “cimitero di Praga”, la stranezza del prima dire e poi pensare è una di queste. Dalla capitale della Repubblica Ceca è stata lanciata in anteprima la stroncatura diciamo preventiva, è quella dell’ottantenne Zdenek Frybort (costui, in patria, oltre che storico è una vera leggenda nella traduzione letteraria di autori italiani) Ecco cosa scrive. Gli incisi fra parentesi sono i miei e non me ne scuso: «Eco è un buon scrittore, il suo è un bell’italiano, (menomale) ma assolutamente niente di geniale (molto poco meno di non benissimo, l’aggiungo?). La sua lingua non sboccia nella poesia (di quale poesia parla, di cosa e per cosa, di un intrigo da raccontare? Mi passi il termine di “Paragonabile”, forse meglio “Proiettabile”? O preferite poesia “Riconducibile” alla raccolta dei dossier di oggi?). È piuttosto uno scienziato, uno che ha scoperto il modo di avere successo e di guadagnare con la narrativa (Guadagnare sembrerebbe un demerito della scienza parlata e scritta. Aggiungo, mi dicono che per l’operazione abbia avuto 2mln di euro dalla Bompiani, meglio di tanti altri che, guadagnano senza merito con prosa, con poesia, con storia, con una genialità mai avuta?). Niente a che fare con Alberto Moravia o Elsa Morante (perché citarli quando sono così distanti da non interferire, né sminuire?)» (vuole forse, ancora, essere lui il traduttore Ceco di Eco?) Lucetta Scaraffia parla di un romanzo «noioso, farraginoso... con un sospetto di ambiguità». Gad Lerner scrive di «opera destinata a diventare un classico». Il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, confessa il timore di «un messaggio ambiguo». Goldkorn e Furio Colombo elogiano U.Eco per aver saputo mettere in evidenza che esiste ed è ancora reale “il messaggio contro l'intolleranza”. Anna Foa polemizza con Eco. In tutto questo sali-scendi di umori il protagonista del libro, Simonino Simonini è il cinico falsario la cui eredità del nonno gli ha lasciato l’avversione per gli ebrei e questa sottile ostilità gli consente di costruirsi una storia di verbali e dossier. Il progetto ebraico per la conquista del mondo tracciato nei Protocolli dei Savi di Sion diventano la dimostrazione della storicità e della cosiddetta «congiura ebraica». Ecco diventare una Vera Storia (inventata) di un falso vero dove di autentico vi è solo l’Autore Eco, chi scrive. Sino a qualche giorno fa gli unici che possedevano la Verità di quel saggio, che sapevano qualcosa in più del libro misterico e misterioso erano i soci dell’Aldus Club. Nella libreria del cenacolo dei bibliofili, la «Rovello» di Milano, gestita da Mario Scognamiglio solo in CENTO sono state le copie autografate da Eco. Anche qui i Rosacroce non si saranno meravigliati di quel numero. Tutto torna, come le novantanove cannelle della storica piazza Aquilana. I mascheroni in pietra, diversi tra loro, con il fatto di non conoscerne la sorgente principale che l'alimenta, diventano la centesima fonte non trovabile, quindi, la più rara. Da sempre, per i molti, quella fontana è stata usata come lavatoio pubblico ed invece, per i pochi, ha rappresentato un tempio di iniziazione cavalleresca Cistercense. (Per chi vorrà approfondire diciamo che i pochi sono i conoscitori dei segreti della scienza, dell'astronomia e dell'ingegneria di cui i Templari furono il braccio armato.) Per attualità di cronaca, l’ho appreso non solo dalle pagine del “PaeseNuovo” ma dalla viva voce di Maurizio Nocera, quel giorno, alla “Rovello” era lì con Mario Andreose, Gianfranco Dioguardi, Gianni Cervetti, Giancarlo Lombardo e Armando Torno e tanti altri bibliofili. La numero Cento oggi è tra le mani di Maurizio Nocera, l’ho veduta con i miei occhi è ho potuto sfogliarla in anteprima la sera del 27 ottobre, anche quasi leggerla. Era proprio lì segnato quel numero romano, in fondo al Colophon. Il colore voluto per quei cento, è un grigio tortora, quasi cimiteriale, con dedica, data e firma con il ritratto caricaturale del grande “falsario”, del cappellaio matto dei secoli XX e XXI, dell’appassionato di orologi che viaggiano a ritroso nel tempo e che ancora una volta fa brillare il famosissimo indovinello: “Che differenza c'è tra un corvo e uno scrittoio? “Credo che Eco ci farà arrovellare e ci porterà ad inventarne una, di risposta. Se domanderete che titolo avrebbe oggi “Alice nel paese delle meraviglie” qualora a scriverlo fosse stato Umberto Eco, la risposta, ne sono certo, sarà: “Umberto Eco nel Paese dei Falsari”. State attenti un falsario si aggira per l’Europa, dove sia in questo momento non ci è dato sapere. L’Autore stesso non lo dichiara, se ne guarda bene dal ricevere una coltellata alla schiena, così come ha affermato a chiusura del dialogo avuto con Fabio Fazio in “Che tempo che fa”. Né sappiamo quale potrà essere il nuovo campo d’azione da lui preferito. Il tempo dell’oggi cospira come quello di ieri ed è probabile che si tratti di documenti, di lettere, di scritti in traballanti e polverose cancellerie anche dell’oggi. È probabile si tratti di nuovi e vecchi governanti, di servizi segreti, di ministri. La vita continua a sgorgare come l’acqua di quelle novantanove cannelle e si ridisegna con la stessa scacchiera ai piedi dell’Albero della Vita di Pantaleone da Casole. Forse si ridisegna il Medioevoprossimoventuro sul Vecchio Continente, partendo proprio dall’ottocento, più precisamente, dando inizio alla storia nel marzo 1897 a Parigi e poi, a pensarci, non così lontano dal nostro secolo, appena tre anni, ma la storia corre all’incontrario come l’orologio del Municipio ebraico che il poeta francese Guillame Apolli¬nare ammirò in occasione della sua visita a Praga nel 1902? Chissà se i denigratori di Umberto Eco conoscono: «Gli animali da fuori guardavano il maiale e poi l'uomo, poi l'uomo e ancora il maiale: ma era ormai impossibile dire chi era l'uno e chi l'altro» (George Orwell).
Ha ragione Eco quando afferma:«se avessi voluto scrivere un libro di storia il risultato sarebbe stato quello di otto volumi e non di cinquecento pagine.»

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