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politically

Categoria: musica/spettacolo Pubblicato: Giovedì, 22 Aprile 2010

 

politically correct, sexually correct, normally correct

 

 

 

di Francesco Pasca

 

 

Scriveva Foucault su Sessualità e Solitudine. Tratto da Archivio Foucault, tr. it. n.3. op. cit. pag.147.

 

 

«Poco a poco mi sono reso conto che in tutte le società esiste un altro tipo di tecniche:quelle che permettono agli individui di effettuare, autonomamente (mi permetto di aggiungere a giustificazione del mio intervento: “con l’intento del collettivamente”), alcune operazioni sui loro corpi, le anime, i loro pensieri, le loro condotte, e questo in modo da produrre una trasformazione di se stessi (…), chiamo queste tecniche le tecniche del sé.»

 

Questo richiamo, inserito da Foucault in un contesto certamente più ampio e non appiattito sul solo dispositivo o un generico assoggettamento socio-culturale ha avuto, per me, il potere di un pronunciamento alla “giustificazione” di alcune forme di quel sé.Tento di strutturare il comportamento di quel sé nell’individualità, nella molteplicità di spunti anche creativi che, come appunto vengono descritti nell’opera citata, diventando Logos, diventano Noi.Con quel Noi, sebbene si concluda ciclicamente la ventiquattresima ora, diamo luogo al continuo nasconderci o a ritenerci, credendo l’esatto contrario, giustificati con l’accettare il sé come la continua diversità di quel sé, di quel Noi.Leggo in questi giorni “I numeri dell’universo – le costanti di natura e la Teoria del Tutto –“ di John D. Barrow per Oscar Mondadori, e trovo un interessante riferimento a quell’ambito e alla sua ambiguità, a quelle cause che muovono il concetto di legalità come giustificazione. Nei sistemi complessi, è scritto, si possono verificare alcuni elementi che consentono il perdurare di un equilibrio di per se alquanto instabile, ma è altrettanto possibile, con opportune giustificazioni, approfittare di quell’instabilità e riscrivere una storia.Riporto da pag. 193: «Fatto singolare, quando ciò accade non è possibile ricostruire una catena di causa effetto. C’è un ambito in cui la teoria virtuale è implicitamente ammessa. Nelle aule giudiziarie è spesso importante decidere se un'azione abbia prodotto un danno. Nel tentativo di insinuare un ragionevole dubbio un avvocato dovrà pro­spettare uno scenario in cui l'imputato si sarebbe comportato diversamente dalla descrizione dell'accusa. Il pubblico mini­stero prospetterà un altro scenario in cui comportandosi l'im­putato in modo diverso non si sarebbe prodotto alcun danno. Il difensore potrà controbattere che c'è un'altra storia virtuale in cui il danno sarebbe capitato alla vittima anche se il suo cliente non si fosse comportato come ha fatto, cosicché questi non può essere considerato responsabile. Strategie di questo genere testimoniano l'importanza delle storie virtuali come mezzo per verificare la solidità di determinate versioni della storia. Naturalmente suggerire storie alternative non è una garanzia che la verità debba emergere. Talvolta causa ed effet­to sono intrecciati in modo davvero difficile da districare …».

Continua, arricchendo quella singolarità, con la descrizione di un fatto e pone la problematica di come, da un comportamento e quindi dalla conseguenze di quest’ultimo, si possano poi trarre delle giustificazioni per un vantaggio. Dalla storiella, si evince ed emergere una “conseguenza reale”, un fatto.Il proposito della mia discussione è tentare di verificare quella conseguenza da un fatto reale e non immaginario e dar corso ad una logica che si preoccupi di un suo concetto gemello, l’inferenza valida riferita all’esito di un atto mentale.Dalla mia convinzione, di quanto da me letto e recepito, ne ho tratto l’informazione ed ho constatato che arrivare ad un’adeguata giustificazione è così come attraversare un lungo processo ed è altrettanto impossibile determinare un risultato.Mi è parso di comprendere ed accettare, come conclusione, l’ambiguità che muove l’accezione di normalità e che la conclusione più ovvia potrebbe non essere riconducibile ad una sola costante.Spesso questa pratica è quotidiana e non comporta esclusivamente la propria persona, ma anche l’uso attraverso l’adeguata parola, dei modi di dire, di confrontarsi e di giungere, poi, a situazioni esattamente opposte al come si presentano o si sono palesate. Per allargarci, possiamo anche andare, risalendo di qualche rigo, a rileggere “quell’intento del collettivamente”, da me inserito, per dare corpo alla definizione del caso.Nella normale speculazione linguistica la dimostrazione è indispensabile e diventa il percorso rigorosamente logico al quale si vuol giungere. Per esempio, nel mio nuovo lavoro non ancora pubblicato, “il palindromo del tempo” ho scritto: «Se scrivo Albero, il risultato mentale visivo è albero, ma non si accenna il tipo, si potrà assumere a piacimento; Se scrivo Frassino, il risultato è albero, ma non sarà indicata né la sua altezza né il luogo, si potranno assumere a caso; Se scrivo Ramo, il risultato mentale visivo potrà essere albero, ma non necessariamente se ne dovrà immaginare un Albero del punto uno e due, forse, trovandosi in un particolare momento emotivo, si potrà ricondurre a ”…quel ramo del lago di Como…”; Se scrivo Omar, il risultato sicuramente non potrà mai essere un Albero né tantomeno una rievocazione manzoniana, ma, se si leggerà al contrario, sicuramente ritornerà Ramo e, per la ragione precedente, questo, potrà farci restituire l’immagine di un Albero o la rievocazione manzoniana.» Risulta evidente come, in tutti i casi proposti, non ti ho dato la vera soluzione, ma altrettanto non ti ho mai detto realmente “cos’è” o cosa realmente “non è”, ho solo adoperato la riconducibilità ad una costante, la giustificazione. Nelle vicende attuali, ancora più spesso, chissà per quale arcano motivo, sono gli stessi oggetti-gesti della quotidianità a giustificarsi. Bellissimo l’esempio “dell’utilizzazione finale”, dichiarazione esplicita che qualunque oggetto-gesto è un’utilizzazione finale, anche fare sesso con chiunque, anche scrivere il seguente articolo e perché no, anche ricevere, mettendosi il tutto tra le mutande ed utilizzare, al meglio, la mazzetta per poi ricondurla a quel “finale”. Tutto è finale, ma sfortunatamente niente è definitivo, irripetibile, ma “giustificabile”. (Ahi! Ho un dubbio sull’utilizzo del termine fortuna o sfortuna).

il concetto del “giustificarsi” è quasi sempre inafferrabile, non viene recepito, ha la capacità di assumere la trasformazione di se stesso in se stesso, ha capacità di un “occultamento apparente”.

Nell’occultamento apparente, la nudità nel suo termine di appartenenza, riferita ad una specifica parte di quell’immagine, la scopriamo nell’attributo sessuale e nel termine di Diversità-Appartenenza. Nello Stato dell’Arte l’uomo e la donna, sin dalla sua creazione, sono rappresentati come il bisogno di coprirsi, ne sentono quasi imperante la necessità, si copre l’Appartenenza alla Diversità. Questa rappresentazione o modo di esprimere la propria sessualità gestuale è significativa ed è riconducibile alla stessa speculazione logica dell’Albero, alla giustificazione o alla sua riconducibilità ad un risultato. Mi è capitato di assistere alla Lisistrata di Aristofane, Colei che scioglie gli eserciti, come oscenità e violenza del potere, diretta magistralmente da Fabio Tolledi e legata alla corporeità dell’eros rigenerato al femminile altamente allegorico nella sua rappresentazione. Con questo nuovo sciopero del sesso si perviene ad un nuovo progetto politico. Ho estrapolato dei passi tratti dalla vera Lisistrata di Aristofane:

 

[…] LISISTRATA:

Ah, sesso nostro pieno di libidine!

Non hanno torto a scrivere tragedie

sui fatti nostri! Se per noi non c'è

che una sola canzone! Oh via, Spartana

mia brava - ché, di certo, ove ci fossimo

tu sola ed io, si condurrebbe in porto

l'affare - dammi voto favorevole!

LAMPETTA:

È duro, pe le donne, a dormí sole,

senza l'ucello! E pure, s'ha da fà:

che della pace, proprio c'è bisogno!

LISISTRATA:

Ah! Tu sola sei donna, amore mio!

VINCIBELLA:

E astenendoci. Dio ci guardi e liberi,

da quel che dici, avremo fatto un passo

verso la pace?

LISISTRATA:

E che passo! Se noi,

con la passera rasa, profumate,

in vestaglie d'Amorgo trasparenti,

girassimo per casa, e quando i nostri

mariti, a pinco ritto, ci volessero

fotter, non ci accostassimo, e fuggissimo,

presto, lo so, farebbero la pace!

 

Nella rappresentazione della "Lysistrata" di Astragali Teatro a Lecce ho osservato più attentamente i comportamenti degli spettatori(io stesso ne ho “subìto”) che quello degli attori. Ho scoperto come quell’atteggiamento fosse compromesso non nei confronti dell’oggetto corpo, ma da una non appartenenza al corpo stesso con una giustificazione comportamentale dell’equivalente a dire o nascondere il che e da chi, se è già e persiste la conoscenza totale del sé come in un training, in un momentaneo bisogno di modificare e trasformare se stessi dalla normalità ad una qualsiasi dimostrazione, una sorta di autodenuncia-riflessiva. Inizia il Tutto con un Tutti a far finta di niente nei confronti di ciò che si vedeva, l’immagine; tutti presi nei confronti di chi veniva interagito, toccato dal volontario coinvolgimento di un dire, di un’azione; tutti guidati dal rito del “vino” o dal “sesso” elargito da Dioniso, e, dal momento che eravamo immersi nel rito, nell’iniziazione, il legame in cui eravamo immersi era strettissimo quanto il passo da fare del loro rito il nostro rito; tutti sapientemente predisposti ad un non pronunciamento, ma alla “giustificazione” di alcune forme di quel sé, sufficientemente esposti nei confronti degli altri, ma indisposti ad essere, poi, oggetti di quell’immagine.

Nel rito, ovviamente, altrettanto breve il passaggio dal trovarsi spettatori ed attori del loro spettacolo. È sufficiente ricordare come le maschere del teatro greco, avessero, oltre tutto, la capacità di amplificare anche la voce degli attori e farla giungere agli spettatori, spettacolarizzata. Quell’amplificazione era l’allegoria del gesto di ciò che è comunemente chiamata “capacità mediatica”, la capacità di un Media di entrare nelle nostre case come consapevolezza di un ascolto collettivo, ma magistralmente tutelati dal non essere certi dell’ascolto altrui, il nostro.

Nello specifico era il richiamo alla contemporaneità, era dato dal verso-senso: dal politically correct al sexually correct, poi dal sexually correct al normally correct.

« ATENIESE: (da Lisistrata)

[…] Va da sé! Noi non si ragiona, quando non s'è bevuto! Se gli Atenïesi daranno retta a me, sempre brïachi andremo in ambasciata! Ora, che andiamo a Sparta, a gola asciutta, non badiamo che a cercar ciò che può mandarci all'aria:sicché non ascoltiam quello che dicono,e sospettiam di quello che non dicono,e riferiam cose che fanno a pugni. Adesso, poi, ci siamo contentati di tutto. Anche se uno la canzone di Telamone c'intonasse, invece di quella di Clitagora, noialtri l'applaudiamo, pronti a spergiurare.»

La danza, la musica, il coro e lo strapotere come costume allegorico della seconda ®eo-pubblica.

Forse la maschera di una Diversità-Appartenenza?

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