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Giano e l'Arte

Categoria: Uncategorised Pubblicato: Venerdì, 27 Novembre 2009

Giano e l’Arte


Storia di fili e fogli senza spessore e di un Giano bifronte chiamato Arte. Ovvero, l’arte indistinta tra bello e brutto.

Della bellezza in arte abbiamo, allontanandoci dal nostro tempo, notizie che ci sono giunte da quel “secolo dei lumi”. L’Europa, in quel tempo, con i suoi rinnovamenti portò anche alla chiusura di numerose botteghe artigiane, all’abbandono delle campagne  e,  in quel nascente neocapitalismo, di contro, s’avverava quello che  oggi chiamiamo “forbice” cioè quella distanza sempre più evidente tra agiati e meno agiati, sino agli ultimi. Lasciando alla storia sociale quel compito, sebbene questa sia sempre andata di pari passo con l’arte, mi addentrerò proprio partendo da questo periodo per ricordare  la significazione di Bello. Per addentrarmi adeguatamente traccio l’ulteriore  idea di quell’Illuminismo  che era anche: fiducia nel progresso, avvicinamento ad una società giusta, uguaglianza, tolleranza politica e religiosa. S’aggiungeva, inoltre, anche l’internazionalismo della cultura. In questo progetto sociale e politico non poteva mancare quindi anche l’altra idea, quella di dare l’ennesima definizione di Bello. Sarà  Johann Joachim Winckelmann, nella sua "Storia delle arti del disegno presso gli antichi" apparso a Dresda nel 1764, che ne traccerà il profilo.

Guardandosi dietro, nel tempo, e con l’umiltà della sua “quieta grandezza”, il Winckelmann, archeologo ed esteta dell’arte, dettò il criterio dell'evoluzione degli stili perchè a suo dire dovevano essere cronologicamente distinguibili l'uno dall'altro, così come andò ad osservare da vicino quell’uomo uscito sconfitto “dallo stato di minorità”.  Nell’analisi stilistica ci suggeriva: “ … La natura sarà qui il miglior maestro: essa infatti nel particolare supera l’arte, proprio come quest’ultima nell’insieme del corpo supera la natura…”. É proprio sull’approssimarsi, sul finire di quel tempo che un filosofo tedesco, Kant , così scriveva nel 1784: “L’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. […] … Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza …”.

Dal momento che non dobbiamo solo considerare l'opera d'arte basata sulle proporzioni delle forme, ma anche sui suggerimenti dati alla nostra  psiche perché dettati dalla stessa psicologia  della forma e  dalla sua percezione,  farò una breve, velocissima, premessa.  Introdurrò un termine, “contemporaneo”, che tuttora mi insegue sin dalle mie prime letture e che mi ha portato a domandare  del perché, spesso s’aggiunge al termine di “moderno”.

A domanda premetto: che con il termine “contemporaneo” è da intendersi quel tempo rivolto solo alla nostra stretta appartenenza a quel fenomeno. Così come premetto che l’arte è sempre stata contemporanea per chi l’ha partecipata, ma moderna  solo a partire da un certo periodo. Da fonti storiche ciò accade nella transizione tra romanticismo e realismo, intorno agli anni 1860. Da quel momento in poi, ma soprattutto  dagli anni  ’70 è utile utilizzare una terminologia più precisa, “arte post-moderna”.

È difficile incontrare tale distinzione. Ancora oggi si usa dire di un’arte moderna confondendola con contemporanea. Quindi è giusto dire: “arte Contemporanea o post-moderna”.

Dal post-moderno in poi, di fatto, l’arte è un concetto assai elastico, essendo venuti meno i criteri di bello classico, di aderenza alla realtà come “copia” della realtà. Tutto infatti è omogeneità, tutto può essere definito Arte. Di fatto, con queste parole, Ernst H. Gombrich ci metteva, con il suo volume "La storia dell'arte", di fronte alla suggestiva specificità di un’Arte che andava ad auto assumersi con il significato di un “Errore”: "....non esiste l'Arte con l'A maiuscola che è oggi diventata una specie di spauracchio o di feticcio...." ed ancora: "Non esiste in realtà una cosa chiamata arte."

Tenendo a mente anche quest’ulteriore “provocazione” dettata con: "discutendo infatti di un'opera d'arte non si può mai completamente disgiungere la descrizione dalla critica. Le perplessità in cui si dibattono gli storici dell'arte nelle loro discussioni sui vari stili e periodi sono dovute appunto a questa mancanza di distinzione tra forma e norma" e lasciata la percezione visiva delle categorie di "norma" e "forma" viene spontaneo affermare che l’arte concettuale per esempio non è più contemporanea, ma persiste nell’essere moderna.

Se l’arte per Gombrich è un concetto elastico, cioè ci troviamo dinanzi ad un’arte sempre più dilatabile, salvo rari casi che non faranno vera testimonianza di detto fenomeno, vedi (l’arte d’espressione o l’arte dettata dall’artigianato dove i concetti di bello-brutto sono segnati rispettivamente da situazioni intimiste e di mercato o committenza), sarà utile guardarsi meglio nel panorama artistico d’oggi.

Se vogliamo dare un’esplicita appartenenza e “dettare” anche noi un’evoluzione degli stili, è iniziato il tempo di farli riconoscere.

Come è rilevabile; l'arte concettuale è l'Idea che sta dietro l'opera piuttosto che l'abilità tecnica della sua esecuzione.  La più prossima definizione di bello in arte appartiene già al passato ed è dell’artista statunitense  Joseph Kosuth. Famosa è “One and Three Chairs”,  (foto di una sedia posta accanto a una vera sedia e con riportata la definizione di “sedia” tratta da un dizionario) un'espressione visiva del concetto di "forma" riconducibile a Platone.  Come dire: ti faccio vedere una sedia simile ad una sedia, ma per renderla vera, plausibile, te la riconduco al che cos’è, descrivendola.

Qui il bello è quel senso di piacere estetico che s’accompagna all’arte.  Ma sin dai primi anni novanta, quel bello, è ormai frainteso, non incalza come quando si va a proporre; come non è più necessaria una didascalia per renderlo credibile.

Ritornando.  Se storicamente quest’Idea può essere fatta risalire ai movimenti Neo-Dada e ai Minimal Art tra gli anni cinquanta e sessanta, oggi, quell’Idea non è più la provocazione neo-dadaista di Joseph Kosuth  e di Piero Manzoni, quest’ultimo noto per i suoi barattoli di “merda d'artista”. Né lo sono più le mappe, i film, i video, le foto, gli happening che erano lì ad essere testimonianza di luoghi specifici, di atti specifici.

Nella Land Art, ad esempio, era lo stesso luogo che diventava arte concettuale attraverso espedienti innovativi e coinvolgenti. Christo Vladimirov Javašev e Jeanne-Claude Denat de Guillebon erano l’Idea, erano e sono ancora i nuovi realisti.(istallazione del ‘The Wall’, Wrapped Roman Wall. Le Mura Pinciane, Roma; 1974)

Oggi l'artista, che ne deriva e ne consegue, dal punto di vista commerciale e di conservazione è solo ed esclusivamente “episodico non finito”. Quindi nei riguardi dell’Arte gli è improprio il termine di contemporaneo o post-moderno.  Noi abbiamo solo e soltanto l’inizio e non la fine di quell’atto. Non abbiamo la sua spazialità temporale dell’opera d’arte e non può essere ricondotta alla nostra specificità di contemporanei.

La nuova domanda:  ma quanto di quel bello-brutto, di un’altra contemporaneità artistica tra il XVIII e il XX sec. è rimasta?  

L’arte della generazione post-post-moderna si sta basando esclusivamente sul rapporto di una teoria non scritta e nel non costruirsi dei veri e propri ambienti spaziali. Non verifica quell’attendibilità descritta. Lo spazio del suo contemporaneo, segnato a due dimensioni, diviene allusione ed altrettanta illusione. Lo specchio che si sta generando come virtualità apparente è l’incurvarsi di quello spazio sino al suo stesso ribaltamento. È sintomatico quell’affermare il trinomio chiuso critico-critica-arte. A. Bonito Oliva, docet.

La trasgressione del “bello”, del linguaggio pittorico tradizionale sta per diventare il buco alla nostra memoria.  Quell’arte, detta contemporanea o moderna, è la staticità del Giano bifronte della nostra generazione. L’indistinta semplicità data dal bello o dal brutto è il non riuscire ad osservare più la totalità e a non saper riportare poi la complessità di una trama disegnata, ad esempio, quella evinta dall’altrettanto apparente semplicità di un “acciottolato romano”, di un “basolato”, di un “muretto a secco”, di un “muro di cinta megalitico”. Dov’è quel filo o foglio senza spessore? L’Idea.  

Venerdì 13 u.s. con il Professore Maurizio Nocera, in prossimità dell’ingresso del palazzo Palmieri a Martignano di Lecce, oggi parco culturale, non abbiamo potuto fare a meno di notare, sotto i nostri piedi, il magico avvicendarsi di pietre nella loro “bella-logica” semplicità compositiva.  

Ritornare alla consapevolezza di quella “Ragione” è ricondursi ancora una volta all’Idea ho pensato.

La più semplice dell’idee è, può essere, la geometria.  Quella “misura della terra”, che si occupa  delle forme nel piano e, nello spazio, attraverso l’applicazione delle sue mutue relazioni. Occorre ricondurla alle origini, al criterio primitivo, ma non approssimato.  I  concetti, sebbene  primitivi,  quali il punto, la retta ed il piano, dovranno essere  descritti  come i punti, fili e fogli di carta senza spessore. Come è detto da Fred Attneave in “Processi Compositivi Stocatici” del 1959: “occorre innanzitutto distinguere due diversi significati di un termine come “originalità” o “creatività”. In un certo senso, niente è forse più originale di una tavola di numeri casuali: essa è assolutamente priva di clichès; ogni numero è il più imprevedibile possibile.[…] Comunque, si è visto che qualunque metodo di costruzione, casuale o meno, comporta delle regole, siano esse esplicite o implicite.”

Per dare ragione, confortato da Fred Attneave, ho scelto un riquadro di 20x20, un reticolo predisposto, determinato dal più semplice dei simboli  semplici, il quadrato. Poi,  sono andato a fissarmi delle regole dopo aver selezionato, dalla totalità di quella sua matrice, un altrettanto modulo più piccolo di lato 5x5 ed ancora mi sono provvisto di una tabella detta di permutazione.

L’opportunità è stata quella di, con quei numeri pari e dispari disposti “casualmente”, ubbidire a delle leggi di altrettante probabilità. Ogni qual volta incontravo un numero pari tracciavo nella casella, diagonalmente, un segno discendente. Quando, di contro, incontravo un numero dispari, diagonalmente, un segno ascendente. La semplice regola mi ha condotto a riempire con quei segni tutte e venticinque le caselle, che ne diventavano la matrice più piccola di un trama evidentemente più grande.

Di fatto quel “caos” iniziale, la disposizione casuale dei numeri, lo feci giungere ad un caos-omogeneo al quale potetti dare il nome di Ordine.

Un modello complesso fu quell’ordine. Non altro che un modello primitivo, l’identico che si riscontra nei segni tribali di qualunque insediamento pre e post-neolitico. Un’Arte del fare ai primordi che inizia a divenire linguaggio. Come dire: l’oggettivo prese sostanza e si differenziò dal non oggettivo. Quella è stata ieri e potrebbe diventare oggi, sarebbe la nuova storia delle arti.  

 

     

 

                           

Titolo del mio risultato stocatico-artistico: (Sono qui a dire quello che sono, che non sono e che potrebbero forse “essere”.  XXI-09).

Un’arte che a me piace chiamare con l’appellativo di contemporanea o archeo-post-archetipa.

Giano il Dio degli inizi, materiali e immateriali, il cui Cicerone lo faceva derivare dal verbo ire "andare", perché secondo Macrobio “il mondo va sempre, muovendosi in cerchio e partendo da sé stesso a sé stesso ritorna”, spero sia l’inizio di nuove regole, di nuove varietà di ordine, ma anche diverse da quelle che risulteranno da una semplice tavola di numeri casuali. (per la cronaca i miei numeri sono quelli dalla manipolazione del ROTAS OPERA TENET AREPO SATOR).

Questo esperimento-procedimento è molto simile a quello  dei modelli di canestri della Guiana Britannica (Franz Boas, Prinitive Art), ma anche non molto diverso per l’ottenimento dei meandri, greche e labirinti della nostra civiltà. Guardarsi al passato, così come fece il Winckelmann; è “rappresentare” l’insieme ed essere al contempo altamente astratto come quel concetto di Bello-Brutto; è anche scomodare il grande Lèvi Strauss quando dice di non accorgerci di dipendere ancora dalle scoperte della rivoluzione neolitica. Persino il semplice calcolo binario è stato già scoperto dai nostri progenitori. Pari o dispari ne è la prova, l’antinomia la conferma.

D’accordo o non d’accordo, ci piaccia o no, è evidente che rischiamo di attraversare un lungo periodo di assoluta stagnazione. L’ultima grande vera rivoluzione, dove “originale” e “creativo” non avevano bisogno di distinzione, si è avuta con il Futurismo e dal Dadaismo ad oggi siamo rimasti ancora “dadaisti”. La “Civiltà dell’Accomodamento”, del “Non Bisogno” sta consumando le nostre risorse? Se la storia degli stili non si è ancora conclusa possiamo continuare ad essere solo Postmoderni?

Francesco Pasca

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