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Somewhere

Categoria: cinema Pubblicato: Venerdì, 17 Settembre 2010

 

Somewhere.

 
L’esistere in un Hotel di nome “Chateau Marmont”
 
di Francesco Pasca
 
 

Avete mai visto cosa succede quando si svuota un secchio d’acqua su di una superficie? Avete mai raccontato di cose semplici con uno stile minimalista ed una scenografia neutrale, con toni di melanconia? Avete mai vissuto l’(in)dolenza latente, l’insistita ripetitività? È, o può sembrare complicato; non tutto dipende dal gesto che stiamo per fare, ma dalla superficie sulla quale stiamo per rovesciare il nostro liquido, il nostro fare. Non può farlo il solo racconto se vogliamo intraprendere una via, ma, quel che è giusto, è il raccontare. Non può essere la nostra e sola melanconia che ci portiamo dentro, ma la necessità di tutti.

Non può essere solo (in)dolenza, ma anche il valore-significato che non ha necessità di mera esplicitazione. Quanto richiesto non vuole essere l’inizio una parabola evangelica bensì la certezza o la presunta tale, da dare alla nostra essenzialità. L’obiettare è che, tale superficie, possa e debba essere di varia natura, compresa la pendenza da attribuirle così come il nome da affibbiarle.

Ecco allora subentrare la necessità del dare certezza e che, quell’acqua, in qualche modo non scorra, sosti e non sosti, che il tutto di noi lasci traccia o si predisponga all’evaporazione o in ciò che erroneamente chiamiamo il nulla. Memoria possiamo chiamare quella superficie. Memoria delle cose che ci hanno attraversato; è l’assistere ed esistere nel proprio quotidiano; è assistere alla proiezione di un “Somewhere”; è dare certezza ad una memoria profonda. Il nostro piano allora diventa cangiante nella consistenza e nell’inclinazione. Ora è piano e rugoso, ora è inclinato ed è a salire o a scendere, ora presenta vistose crepe in cui affonda, scompare di tutto. La crepa più vistosa è far girare insistentemente su di un anello d’asfalto circolare una Ferrari (simbolo di lusso e di un preciso life style), assistere al suo rumore che è il canto del cigno. Una, due, tre, quattro …; potrebbe girare all’infinito quella Ferrari, ma è ripetitivo il suo fare, anche l’emozione di una curva è assente. Il “Somewhere” di Sofia Coppola inizia con la “fecilità” esistenziale di un indefinito che sfugge e ritorna, sembra quasi, all’inizio, di non vederne l’atroce squallore, di stare ad aspettare che accada qualcosa. Due curve sottratte alla vista, ma non al rumore. Amo il Cinema, quello che è definito come settima Arte (Perché dare e fare graduatorie? Sarebbe interessante approfondire.) e mi predispongo sempre al suo ascolto. Leggo preventivamente le critiche per poi far avverare, smussare o sublimare meglio le impressioni.
Non è il caso di “Somewhere”. Trattandosi di un’Opera in cui si ripesca Stephen Dorff, uno divenuto il qualunque sebbene sia stato e ritornato qualcuno, tutto ciò mi ha incuriosito e non ho voluto leggere alcuna critica o recensione, mi sono affidato all’istinto e alla bravura di una trentanovenne nata il 14 Maggio 1971 (Toro), a New York City (USA). Una non della mia stessa età anagrafica, ma magari con un vissuto di una generazione culturale a me più vicina. Ho veduto il film ed ho poi letto. Ho riscontrato una “Nausea” di memoria sartriana. Una superficie pericolosamente inclinata sulla quale s’aggrappano per non rotolare inquieti non protagonisti, ambienti incastonati e amplificati dal disagio di stanze d’albergo più o meno lussuosissime e compiacenti, di interminabili freeways di una Los Angeles per “strade perdute” in un nulla esistenziale. In una di queste recensioni, oggi che scrivo, ho letto e sono d’accordo di un come scriveva Sartre, di una “superficie della solitudine”, di “una sorta di limbo in cui si intorpidiscono i pensieri e l’esistenza scivola via attimo dopo attimo. ” È Routine della paura mescolata ad verso senso di meta ignota. Nel parlare di protagonisti, vedo Johnny Marco (Stephen Dorff) che non è il solo protagonista che attraversa la celebrità, c’è chi la subisce ed è la celebrità di una figlia undicenne costretta a guardare il padre da lontano. È Cloe (la bravissima Elle Fanning, attrice bambina di già film come Babel e Il curioso caso di Benjamin Button.), che corre per quella superficie oltre lo spazio esiguo di un week end e costringe il padre a riflettere, ma soprattutto a riflettersi. Il racconto sta ad indicare uno stato in luogo, ogni luogo, infatti, vuole essere identico al primo ed al secondo, subentra a volte anche la frenesia di un moto a luogo indeterminato, confuso. È, e, via via, diventa ancor più la necessità imprescindibile di uno scivolamento, di una deviazione centrifuga e gravitazionale. Sofia Coppola racconta un universo che ben conosce – lo showbiz (il mondo dello spettacolo) e i suoi meccanismi – traccia il percorso al limite di una sostanza narrativa senza peso e nel vuoto hollywodiano che è anche, per certi versi e, paradossalmente, la grandezza artistica del Cinema di ieri e d’oggi. È la critica palindromica di quel che vogliano e al contempo rifiutiamo.
Ritorniamo ad una alle domande d’inizio: avete vissuto l’insistita ripetitività? Ebbene, il film è una precisa intenzione poetica e narrativa di un’insistita ripetitività, meglio ricorsività. La cultura cinematografica italiana è palpabile. Sofia Coppola, generazione del ’70, ne fa ed ha riferimento indispensabile. La ripresa fotografica e la narrazione corrono parallele, direi sovrapponibili nella memoria del cinema. Gli anni sessanta ne sono eco. Antonioni di “deserto rosso”(1964 il film psicologico sulla nevrosi – depressione -, sull’esistenza del solo sentito dire) o “Blow-up”(1966 il tema che sviluppa il rapporto tra la realtà e l'apparenza e ciò che è considerato preponderante in un’immagine della nostra epoca) sono l’Inizio e la Fine che si incontrano.
Il “Da qualche parte” o “In qualche luogo” li senti che non viaggiano in senso contrario. È sottolineato sin anche nella sequenza d'apertura che è l’identica nel senso ma non nel verso, di quella di chiusura. La ragione è nel raccolto che sintetizza senso e verso. Il minimalismo è nella semplicità, di un giro in tondo sulla Ferrari e di una stessa Ferrari che spegne il suo rumore in un verso che non è più in tondo, ma rettilineo e infinito. È semplice e complesso al tempo stesso. Somewhere è un film che viaggia diritto verso una meta “Non Ignota”.
È la Coppola ad indicarci, dirci che non occorrono «rivoluzioni drammatiche o terremoti emotivi, basta qualcosa di semplice e delicato, basta un piccolo passo, figlio di un’altrettanto piccola (ma decisiva) spinta.» Personalmente, amando particolarmente Calvino, ritrovo il suo racconto: «Ancora confuso era lo stato delle cose del mondo, nell’Evo in cui questa storia si svolge. Non era raro imbattersi in nomi e pensieri e forme e istituzioni cui non corrispondeva nulla d’esistente. E d’altra parte il mondo pullulava di oggetti, facoltà e persone che non avevano nome né distinzione dal resto. Era un’epoca in cui la volontà e l’ostinazione d’esserci, di marcare un’impronta, di fare attrito con tutto ciò che c’è, non veniva usata interamente, dato che molti non se ne facevano nulla – per miseria o ignoranza o perché invece tutto riusciva loro bene lo stesso – e quindi una certa quantità ne andava persa nel vuoto. Poteva pure darsi allora che in un punto questa volontà e coscienza di sé, così diluita, si condensasse, facesse grumo, come l’impercettibile pulviscolo acquoreo si condensa in fiocchi di nuvole, e questo groppo, per caso o per istinto, s’imbattesse in un nome e in un casato, come allora ne esistevano spesso di vacanti, in un grado nell’organico militare, in un insieme di mansioni da svolgere e di regole stabilite; e sopratutto – in un’armatura vuota, ché senza quella, coi tempi che correvano, anche un uomo che c’è rischiava di scomparire, figuriamoci uno che non c’è … Cosi aveva cominciato a operare Agilulfo dei Guildiverni e a procacciarsi gloria.» (da il cavaliere inesistente – Italo Calvino) Dorff si appropria di un personaggio complicatamente, smarrito. Lascia a noi l’espressione che diventa il racconto. Lo smarrimento è raggelante e merita di abbandonare una Ferrari ed incamminarsi in un “circa …”, in un “qualche luogo …”, “da qualche parte …”. La storia si vive in un posto la cui proprietà è di nessuno.
Il Film della durata di 1h e 38 minuti si metabolizza (almeno per me) con più di un attimo di ritardo, proprio con i tempi lunghi con cui si presenta.
Può anche non piacere.
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