la Pietra dell'ovvio
La Pietra dell’ovvio
(le veneri parabitane)
di Francesco Pasca
Domenica 08 novembre 2009 usciva su ilPaesenuovo un mio articolo su Claude, su Lévi-Strauss, con quello scrivere davo corso e conto, per il mio verso, alle leggi di una logica governata dall’intelligenza di quell’illuminato scienziato e alle variabili considerate da lui comuni negli uomini. Come tutte le considerazioni che restano tali, anche queste non hanno mai cessato di essere da me osservate in quel profondo che può essere persino il sogno o la capacità della trasformazione, a volte per propri usi e consumi.
Di Claude, allora, usufruii delle sue analisi, di quelle che hanno dato origine all’illusione totemica. Dell’antropologo ho imparato la visione del mondo.
Oggi riprendo l’argomento e non per riparlare di Claude ma per il significato e l’ampiezza che può avere l’Oggetto quando è l’uomo ad assumerlo ad Oggetto, cioè ne descriverò la metodicità del primate che ha lasciato, a noi non ultimi suoi eredi, la facoltà di distinguere gli atteggiamenti e prendere gli opportuni consigli confrontandosi con la natura. Condurrò questo mio nuovo esercizio con la progressione geometrica del “creare” come insegnato e in un rapporto costante tra natura/cultura. Dall’immensa Cultura dell’amico Claude, l’antropologo, genererò una piccolissima parte dell’esperienza diretta con l’Oggetto, nello specifico con l’Oggetto Pietra e chiamerò il generato: “della Pietra e dell’ovvio”.
Pertanto, in quel cammino vi troverò dapprima la pietra filosofale, poi quella detta della soglia di Pietro, quella miliare, quella di confine, la preziosa nonché la fastidiosissima pietra che ama danzare nel nostro quotidiano calzare ed infine quell’amato uovo di Pietra, la Pietra di Sole.
Da qui: Chissà come è stato veramente il nostro “Ad-amo” alle prese con la consegna del sé al mondo? Amo immaginarlo nell’ovvio e con quell’ovvio avrà dovuto fare i conti. Di ovvio, v’era, senza ombra di dubbio la sua sopravvivenza, poi avrà fruito e digerito con lo spirito e con il corpo l’esigenza e, con l’uno o con l’altro, ne avrà tratto conseguenza di esistere. Dapprima lo vedo avvolto nell’inconsapevole, poi, con la possibilità di toccare, di dare corso alla manualità.
Con ciò che gli fu proprio si lanciò nel consapevole e s’abbracciò in un rapporto sempre più stretto con il sé. Dall’occhio alla mano, dalla mano all’ovvia percezione, all’accumulo dell’esperienza nell’immenso contenitore mentale, alla perfezione.
Il suo fu il facile osservare e la consistenza divenne la qualità, ne trasse differenza e difficoltà, selezionò fra cose, fra oggetti del suo sempre più fitto intorno.
Ancora nell’ovvio, attraverso i processi sensitivi, avrà avuto sensazioni rispecchiate nel tatto, nella vista, nell’udito, nell’olfatto. Dell’acqua apprezzò il sapido e l’insipido, il freddo ed il caldo, la sua consistenza se ghiaccio. Del legno riscontrò la provenienza, la durezza e la capacità del docile o difficile taglio. Del fuoco dedusse la capacità del poter distruggere e del trasformare. Da ovvio in ovvio calpestò la terra e solcò mari. Ha trovato, comunque, lungo il suo itinere nuove terre e l’altrettanta ovvietà e la certezza di trovarsi in un grande contenitore di Pietra. Dell’uovo di Pietra ne fece il Padre e la Madre, la necessità di apprendere l’altrettanta esistenza ed indispensabilità di quest’ultima per contenere il mare, per produrre il legno, per dare spazio all’aria, per espellere o comprendere il fuoco e per quanto di prezioso poteva nascondere nel suo intimo. I metalli divennero l’ulteriore accompagnamento.
Fu così che la Pietra diventò l’Oggetto di riferimento assoluto. Nell’ovvio di una Pietra trovò sia il colore che la trasparenza. Nell’ovvio individuò il trascendente e la sua manipolazione. La Pietra fu amuleto, visione del divino, capacità di immaginare e costruire.
L’uomo di cui oggi voglio parlare non è l’uomo ai primordi così come normalmente è veduto, immaginato, dirò dell’uomo che è sempre al suo inizio rispetto a ciò che lo attende come fine, come umanità, dirò dell’uomo che ebbe la sorte di abitare un triangolo di territorio, un lembo di terra tra Tuglie, Alezio e Parabita.
Dirò di una più recente storia di territorio, detto della messapia, e di un uomo vissuto nel secolo scorso. Di quest’uomo mi è capitato di conoscere il fratello e per suo mezzo ho potuto sapere molte cose dell’abitante di contrada Monaci e del suo territorio detto: “dalle sacre pietre”.
Nel Salento, terra che amo profondamente, nella terra calpestata da “maledettissimi” uomini con i quali è facile l’incontro e lo scontro nel più metafisico dei modi non è difficile incontrare storie. Si raccontano da sempre strane storie. Qualche volta si scrivono, si riportano con altra immaginazione, con la diversa predisposizione di racconto. Lo scritto a differenza del parlato assume strane connotazioni di segno e significato, astrattamente, può essere simile al segnale di fumo, può essere raccolto anche da chi è lontano dal luogo che lo ha generato e, quel lontano può iniziare a leggere le sue pagine, se interessato si soffermerà a riflettere di quel segnale, a decodificare.
Mi è giunto, e per questo ne scrivo, in questi giorni un anello di fumo ed ancora altri anelli, anelli, tanti anelli di pagine su pagine, ho ascoltato da quel segnale una storia, anzi due storie: “Caro Silvio – Caro Pantaleone” edito da ideemultimediali per le grafiche Panico di Galatina -1998; E “le sacre pietre di Contrada Monaci” per la Tipografia Moderna – Kurumuny edizioni -2005. Come tutte le cose che spuntano da orizzonti lontani è apparsa l’immaginazione, nel fumo di quegli anelli così come nelle nuvole vi è apparso l’altrettanta fantasia. Il vento, il caldo, il freddo ne ha cambiato la morfologia e, quei candidi segni, talvolta, dall’astrazione sono passati a sembianze più riconoscibili. Da quei segnali ho scoperto che l’uomo di contrada Monaci è stato dipintore, un semplice manipolatore di terre colorate, un artigiano che non ha avuto velleità d’arte ma ha sentito fortemente la magia ansiosa scaturire da quest’ultima.
Ho saputo anche di sue scritture, di sue storie costruite con lo stesso immaginario nell'usare sabbia e colori. L'inconsistente sabbia e i granelli della pietra màzzara o carparina sono diventati supporto per i suoi segni, per fantasie da rincorrere da ramo in ramo, su alberi che non toccano mai il cielo e che ugualmente si espandono sempre più nel cielo. Fra gli alberi, segnata ed evidente la presenza di un uomo filiforme, di giacomettiana memoria ma per me riconducibile alle statuine etrusco-italiche del volterrano, di altri luoghi lontani fisicamente ma presenti nell'ancestrale di uomo italico-terrestre-cosmico, di dispensatore di favole per altri uomini anch'essi filiformi, esili come l'esistere, di esseri che non possono avere dimora diversa dal contenitore sul quale sono stati posti, la Pietra. Per l’uomo di contrada Monaci, i frutti appesi all'albero che spuntano dalla pietra sono le altrettante meraviglie dell’ovvio, della semplicità che colma la mano. L’albero è quello di sempre, è il “quotidiano” e “l’eterno”. Così è iniziato il primo anello, dal bianco fumo, con la paziente posa in opera di un tappeto di pietra e, pietra dopo pietra, parola dopo parola è diventato il dialogo epistolare con un altro uomo, anche lui alle prese con un altro albero, anche lui cacciato dal “paradiso terrestre” e catapultato sul contenitore terrestre per assecondare trame narrative, per incontri smemorati di fantasie intriganti.
Il primo uomo classe 1943 ebbe nome Silvio Nocera, il secondo ebbe anno 1163, per la data d’inizio dell’opera pavimentale, il suo nome, Pantaleone da Casole. I due fra segni ed immagini duellano, si intrigano per quanto si ostinano a voler fare.
Pantaleo (nome fortemente nostrano), così viene chiamato amichevolmente, è uomo di chiesa con propensioni all'arrovello, alla ricerca dell'uomo fra passato e futuro, fra segni del peccato e ragioni d'intelletto. Quel monaco vuole costringere alla resa Silvio e gli spiattella le probabili intenzioni del guardare con: «ti vedo che mi guardi con acute pupille ... La pietra è per me la tua storia, ma quali segreti vuoi scoprire Silvio? Di quali verità ti vuoi impadronire? Perché tu non me la conti giusta, caro amico mio laico, no di certo ... Credi davvero che il frutto dell'albero sia stato la mela e non la felicità e la dolcezza di un fico, di uno dei mille di mille sapori e odori? È la libertà, le illusioni della fede, l'insieme degli errori del giorno e della notte spinti dal carro della tua vita, come credi possano aspirare ad un nuovo mondo degno di Libertà.» Silvio risponde e scrive e dà di cipiglio, affronta, immediatamente, l’interlocutore Pantaleo e lo circoscrive, lo rinchiude, così come Pantaleone ha già fatto di sé nell’ottavo medaglione della Cosmogenesi otrantina, lo pone al cospetto e al confronto con le due immagini leggendarie. Il suo leggendario sarà la civetta, il leggendario di Pantalelo sarà l’unicorno. Silvio lo incalza da subito e dura è la risposta a Pantaleo, al monaco, al prete, al collaboratore occulto di Casole per volere di Gionata vescovo e saggio conoscitore del mondo, del peccato e della beatificazione. «caro Pantaleo, certo tu mi hai visto, ho passato la migliore parte del mio tempo ultimamente, in estate ed inverno (e viceversa), a cercar di leggere e di capire fra le righe il mosaico che la dabbenaggine del Vescovo Gionata ti ha permesso di fare, invece di farti salire sul rogo e trattarti come tutti gli uomini portatori di novità e/o tenaci conservatori dell’antico, che sanno della Bibbia ma sanno anche di Omero, che onorano la virtù ma anche la dolcezza del peccato, anatema su di loro! Giacché secondo la Chiesa essi meritavano (e meritano?) la più dura condanna.»
Il primo segnale di fumo, l’averlo ricevuto e letto, è stato da me accolto come un bel testo. Ho scorso il dialogo veloce accompagnato da due Vati, da Luigi Scorrano e da Aldo De Jaco. Questi coi loro dire hanno apprezzato le capacità descrittive di Silvio Nocera, la sintesi musiva che restituisce il profumo della terra, il sentore semplice del contadino, del suo rapporto con l'eterna quotidianità del mito, della storia, del simbolo e del richiamo. Nella brevità del racconto la civetta è stata testimone muta di quel dialogo, si è sostituita all'orologio del nuovo tempo, della costruzione paziente del muretto a secco, dello strumento da lavoro dettato dalla forma e dall'ovvio.
Il secondo segnale di fumo è complesso. L’ho accolto con una lunga predisposizione a ciò che può essere l’ignoto da scoprire, da verificare. Anche questo racconto nasce dal fare di un altro albero. Quell'albero è il melograno ed ha proprietà mutanti, può diventare farfalla e colore di farfalla, può prendere nome Mumu e avere tre puntini vistosamente predisposti per essere guardati. Sarà Mumu a scortare, condurre Silvio nell’ovvio. In questo racconto Silvio Nocera va alla ricerca del segnale forte di appartenenza alla Pietra. Dalla Pietra trae motivo di puntigliosa ricerca di un perché. Trova la misura tra il logico e il magico, vuole far quadra dei due modi e dei mondi che per lui sono, possono essere avvicinabili, vuole renderli possibili con l’acqua che sgorga e li rende immortali. Allontano per un attimo il segnale di fumo e conduco la mia digressione dal racconto. È l’ovvio dell’uomo Silvio a suggerirlo. Dirò brevemente del cos’è oggi l’archeologia. La intravedo come una giovane esperienza che cade nell’equivoco e, quando non cade sono altri che la conducono all’equivoco e se ne servono con fini maldestri. Riflessione questa data anch’essa dall’ovvio contadino e dall’ingenua trasparenza che si conduce ai primordi e che viene manipolata per usi non più nobili di ricerca ma per vanagloria di parte e da eminenti professori d’occasione non rispettosi della storia. Qui invece la pratica archeologica è ben vissuta da Silvio. Il narratore di Contrada Monaci ha approccio vero con l’archeologia, incontra il Prof. A.M. Radmilli, Presidente dell'Unione Internazionale delle Scienze Preistoriche, del Dipartimento di Antropologia e Paleontologia Umana dell'Università di Pisa, collabora con lo studioso dalla pratica archeologica ben ragionata e si porta come vero abitante di Luogo alla riflessione ed apprende anche di una pratica archeologica del portare altrove. Silvio se ne rammarica non è felice di tale soluzione e il suo racconto è anche grido di dolore. I processi temporali dettati dalla burocrazia, al professore Radmilli, fanno giungere l’ora del commiato dal Luogo. L’archeologo è costretto ad abbandonare le ricerche e prima di lasciare ad altri l’inizio del suo studio suggerisce a Silvio dove guardare e come guardare: « … Ascolta, se cerchi per bene, la tua passione e soprattutto la tua curiosità, ti porterà dritto alla scoperta di grandi segreti che le pietre custodiscono … » Per certi versi il prof. Radmilli è anche Mumu, è la gialla farfalla dell’ovvio di Pietra. Il fumo del secondo anello, della “Contrada Monaci”, parte da lontano, dall’immaginario di bambino sognatore alle prese con una caverna detta “la grotta te lu Nicola fazzu” e giunge ad altro ovvio, all’ovvio di interrogativi di un altro giovane sognatore che è la figlia: «Papà che ci fai con le pietre? Perché riti, miti, culti, sulle tele? Perché quando dipingi ci sono sempre le Pietre?».
Papà Silvio ha tante rispose:« intanto sono gli unici veri spiriti che raccontano la storia e la preistoria dell’uomo e non solo … sono pietre per sedi di divinità, con esse si sono costruite armi per difendersi e per offendere … altre per frantumare … altre per costruire menhir, dolmen, muretti, case, chiese, piramidi, altari, statue, tombe … Questo piccolo elenco spero ti faccia capire … dopo l’uomo è il materiale più “sacro” che la Magna Mater ci abbia regalato … Questo è il mio pensiero alle tue domande». Silvio uomo e padre ha donato le sue tele, i colori finemente frantumati, portati a grandezze consone all'utilizzo, ha conosciuto e si è meravigliato della scheggia di Pantaleone, di altre pietre utili per il suo immaginario, del suo pensiero ha lasciato impronte semplici sulla superficie della pietra dell’ovvio, ha detto dell’uomo farfalla, di Mumu, del grande masso e del suo magico recinto. Ha fatto luce sul come si può indagare ed essere felici attuando la magica relazione tra pensiero ed azione, sarà stato certamente un non cattedratico, un non archeologo, ma si sarà chiesto nell’ovvio: qual è il vero numero delle Veneri Parabitane?
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