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L'AGORA'

Categoria: racconti Pubblicato: Lunedì, 25 Aprile 2011

L’Agorà singlottica.

Del Cavaliere inesistente

di Francesco Pasca

« Se si vanta, l'abbasso; se s'abbassa, lo vanto; lo contraddico sempre fino a che comprenda che è mostro incomprensibile. »

(Blaise Pascal, Pensieri, 420)

Un tempo frequentavo una piazza di nome “Agorà”, poi avvenne qualcosa. Si attuò la “realtà” di un fenomeno, spuntò lì, nel suo centro, e, ad osservarlo attentamente non faceva ombra quel “coso” e non si materializzò nemmeno come “cosa”, non era più la piazza del raccogliere e del radunare, né l’ombelico della Polis, né quella delle attività d’intrattenimento. Quell’Agorà con il suo equestre condottiero divennero tubero improvviso. Trovarsi lì, in un luogo senza più appartenenza e che, in quel lì non poteva più essere generò una nuova “realtà”, l’ennesima. Non so bene se fosse l’ora dell’Ortica, ma non lo era neppure quella del Rovo. Questo fenomeno non condivideva la propria ombra ma succhiava dalla stessa terra.

Era così il viaggiare nell'arte dell’esistere; era ed è l’intrattenersi per un sentiero sconnesso, l’impercorribile. Scrivere per me non era, né è più l’esigenza, ma l’attesa. Lì in quello non-spazio e non-tempo non accadeva più nulla, non vi si trovava nulla. Quel luogo sebbene fosse per titolo il luogo dei luoghi non era né il “culto” del suo fondatore politico né della sua divinità protettrice. Il bagno di folla in cui alcuni o meglio l’uno si era immerso in quel determinato non dava avvertenza di maree imminenti né di tsunami probabili. Da allora non ritorno così frequentemente in quella piazza né per “immergermi” nell’immaginario. Per me che amo la frequentazione della ragione, come in tutte le piazze le immagini che mi si possono palesare sono la diversità del mio dall’altrui vedere, sono il coniugarle con un fatto da far divenire con sofferenza e chiamarlo poi democrazia. Al di là di qualsiasi posizione di principio che può essere in odore di un ego contrapposto o al di là di ogni pur forte impulso d’es, non vi può essere ostracismo o spudorato infantilismo estetico in cui può trovar facile il cadere nella bellezza fattasi rima con destrezza. Da quell’all(ora), quel non vedere per altri divenne il mio guardare e lo continuerà ad essere e lo sarà, perché è differente non solo per puro senso prospettico, così, come potrà non esserlo per un mio particolare soffermarmi solo su ciò che desidero guardare o non vedere. In questo fare avrei potuto anche decidere, come mio solito, di intraprendere il sentiero del banale, che è poi quanto parrebbe o quanto vi è di più promettente in chi e per chi ha voglia di poter supporre, di poter viaggiare nella struttura mentale dell’uomo o nella sua organizzazione di pensiero. Ve ne sono tanti che lo fanno con alterne fortune e che illudono i loro simili di saperlo fare ed esserlo, dichiarandosi persino attendibili testimoni. Per quel conoscitore d’animi è ritenuta ben costruita l’opportunità di meglio indagare, cercare quel che non c’è. D’altronde, chi si è “inventato” l’isola che non c’è?

Chi può aver reso necessario parlare di un’isola senza tener conto che qualsiasi isola per avere ragione di esistere presuppone il contestuale, ciò che comunemente è chiamato continente? Se non vi è continente come può esservi l’isola? Quella categoria di pensiero, nella fattispecie, diviene, allora, quell’opporsi a chi non crede nella possibilità di una spiegazione razionalmente rappresentabile come la totalità del reale. Ho già avuto modo di scrivere che la realtà è data dal succedersi dei fenomeni, e, da riproduttore di quel particolare guardare e fare, quella che quotidianamente vedo intorno a me e che è diversa, non è la realtà ultima né comunque quella fondante razionalmente. Verrebbe da osservare che, se tanto dà tanto, anche quella realtà non è razionalmente fondante, né lo è l’illusione, né il fluire di fotogrammi, spezzoni di realtà, che non hanno dimensione temporale né peso, ma solo apparenza. Trattandosi di banale, per quanto ovvia è la conseguenza, così come altrettanto ovvio è quanto in me resta per un fuori, per il concetto di “utilità” parafrasato dal e con il divertissement, che è un puro “nulla”. Sebbene tutto ciò, quell’intraprendere, non è dato a tutti o meglio non è dato a chi vuole assumere il suo essere fuori dall’ovvio perché per alcuni sì è già pre-costruita la sua personale ovvietà. Dell’uomo fuori dall’ovvio non si potrà che accettare l’affermazione di avere buona cultura e una buona memoria. Per chi vi dentro, se si vuole accettare  la nozione ideologica del sapere, quel banale modo d’essere sarà anche in grado di modificare i comportamenti e le visioni del mondo. D’altronde si potrà, si porterà all’ironizzare, all’irridere il mondo degli scrittori parlanti (attraverso l’uso del poter dire coi suoni, che poi sono parole e non pernacchie, di una “probabile” invettiva dettata dalla “ipocrisia” di cui si è parlato abbondantemente in un testo a parte). Ciò non apporterà alcuna metafora ma, solo come detto in precedenza, divertissement, che è un puro “nulla”. Così come per me che amo leggere, “Ancora confuso era lo stato delle cose del mondo, nell’Evo in cui questa storia si svolge …” raccontava Italo Calvino nel suo “Il cavaliere inesistente” al capitolo IV.Conseguenza: La parola detta e negata passa solitamente con il taglio della lingua; La “parola” dello scrivere è per il taglio della mano; Quello del credere di essere è più complicato del far credere di essere e il suo corpo passerebbe dalla decapitazione, così come si confà ad un ben pensante.

Ma per un Cavaliere inesistente senza corpo, così conclude Calvino:”Dovrò considerare pari a me questo scudiero, Gurdulù, che non sa neppure se c’è o se non c’è?” “Imparerà anche lui … Neppure noi sapevamo d’essere al mondo … Anche ad essere si impara …”

Per questo: Buona Fortuna!?

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