surreali
Surreale per chi?
Ovvero: leggere se non è una passeggiata.
di Francesco Pasca
Caro Ignazio,
« “come camminare sulla superficie terrestre” (?)» è forse « “come descrivere il bello senza averne la dimensione esatta” (?)» (da, sketch-Poesie).
Ho già conosciuto Ignazio che racconta, affastella favole per adulti e non; Ignazio che parafrasa, bubboleggia, razionalizza in predisposizione; Ignazio che unisce le cause e, per quest’ultime, persegue dapprima l’Aristotele, in quel che se ne percepisce con il surreale di una “geometria tutta aristotelica”.
Così m’è parso, è stato il mio leggere, nel e per un sentimento di scrittura che ne ha trascurato la sensazione: (come se Ignazio volesse vedere il mondo di sbieco.)
In Cartesio ne ho veduto elaborare la stessa causa e ascriverla “nell’efficiente". Con Spinoza è tuttora nell’intento a riprovare e si è poi ri-trovato nel campo di Cartesio, in particolari identificazioni per altra estensione. Per il movimento e per il pensiero l’ho veduto anche, è in un Hume, nelle cui cause hanno effetti che, non possono essere scoperte dalla sola ragione. Traduzione logica è stata ed è nel tuttora una scrittura di transito per l’esperienza. Nel Suo surreale il difficile o il complicato è veduto nelle idee. Nella forma semplice è fra l’essere natura o sostanza. Gianfranco Labrosciano lo ha “introdotto” ultimamente per l’ennesima sua scrittura. Questa volta sono racconti surreali per Edizioni Arianna.
Per il Labrosciano è un’abbondante e liberatoria nevicata, di libri ovviamente. A me che, di lui voglio scrivere, e ho già scritto per altre sue “favole” e per Racconti patafisici e pantagruelici nell’edizione Manni, sono appena nell’inizio del raccontare. Del e nel suo dinamismo “futurista” mi piace acchiappare almeno un fiocco di quella neve, di quei cristalli per far “sciogliere” e “scegliere” i nuovi racconti, farne magari le sue stesse metafore, quelle ad esempio con cui vengo accolto nella lettura con il suo scrivere d’inizio.
Ora, Caro Ignazio, sono con lui in un Central Park, magari di una New York metropoli, nel seme gigantesco di una mela piccina piccina piccina; fra le tante ed altre sue dislocazioni sono come: l’essere in lui nel West End o correre verso il Met. Sono anch’io fra i pochi che ascoltano per essere ancora alba o in un giorno pieno di imprevisti, così sono con il mio apprestarmi a leggere del suo surreale. Mi diverte e sono fra i tanti palloncini che esplodono, per bocca e per fiato di Ignazio (Apolloni). Ti confesso che, l’Apolloni ho avuto la sorte di conoscerlo personalmente per lettering in un laboratorio di provincia, in una cittadina del nord leccese, a Novoli, in quel LPN di Enzo Miglietta, ma non per la scelta dei soli caratteri tipografici da utilizzare nel suo e nostro essere poeti visivi. Il nostro è stato, è il lettering del rinnovamento nella Poesia monoglossica per la singlossica. Per lui in particolare, per noi, non è stata scelta di solo testo, né divagazione per altre pubblicità assordanti o tracciabilità cubitali da far stupire, né per essere rispecchio di sole immagini. Nel lavoro, qualunque sia stato il luogo dove ci siamo fatti esplodere coi palloncini, si doveva rigorosamente essere nel rifugio stesso del soffio, esplodere con essi e in esso. Il rumore, in quel silenzio era ed è nel rumore della Singlossia.
Quanti i giorni di un febbraio non bisesto? Sì! Tanti sono i racconti surreali di Ignazio (Apolloni) per le Edizioni Arianna. Tanti i ghirigori per afferrare la memoria e immergersi nell’improvviso.
” Dov’ero arrivato? Quanto manca alla fine, e cosa ricordo di aver letto fino ad ora?” (pag. 26)
Questo è il suo surreale, essere il dipinto in: “… foss’anche la punta del naso di una mosca da colpire stando a dorso di un cavallo in corsa e mentre tengo la pistola dietro le spalle.” Questa è la sua memoria, colpire nell’assurdo, come per l’incontro descritto con Franca Alaimo nel chiosco di Monreale, in un divertimento lessicale, fra un Orate frates e un Orate soroses.
Questo quel che sarebbe divenuto Singlossia, questo il sostare “nell’orrendo” di un trabocchevole, questo il dimorare fra assi cartesiani da decifrare nelle collocazioni dei punti di un fonosemantico, di un idosemantico, di un diacronico. Come vedi caro Ignazio, leggo passo dopo passo e scrivo, m’appunto, disserto come la sua scrittura sulle “proporzioni poetiche”. Mi nutro di pesce gotico, per le edizioni Geiger di Giorgio Celli; ciclostilo in proprio le descrizioni in atto di Roberto Roversi; recito anch’io gli sguardi i fatti e Senhal di Andrea Zanzotto; mi tuffo di corpo e animo anch’io nel Laboratorio delle Arti, in un Domenico Cara. (pag.37) Ora smetto di fare. Fine di un globertrotter. Ho altro da leggere o meglio scrivere di Ignazio e voglio sottrarmi da qualsiasi effrazione o meglio ancora, dallo scassinare o ricavare il verificare, trovare il contraffatto.
Caro Ignazio, brandelli di fotolito impresse sono da sempre pronti per altre lacerazioni, per nuovi decollage, per altrettanti brandelli da collocare nel Palazzo della Penna in quel di Perugia e in attesa di infrarossi da proiettare sui tanti Mimmo Rotella da indagare. Ignazio mi stupisce sempre nel suo macinare, dà opportunità a me che scrivo di trovarmi all’unisono nel surreale.
L’Apicella, Rossana, me lo ha sempre additato, descritto fra i poeti da cogliere, al volo, come il lettering di un fumetto colto o di un lettering situato fra “Pensieri Minimi e Massimi Sistemi”. Ora, se mi consenti, viaggio ancora per i racconti di Ignazio(Apolloni), è lì il Mito e mi diventa tapis roulant.
Mio caro Ignazio, il Mito è anche il mio cavallo e, il suo Arturo, quello dell’Ignazio(Apolloni), è come fosse il mio Alber(t)o, entrambi mostrano Opere da galleria per tele di Caravaggio e Tintoretto. Sai bene ch’è difficile: “mettere ordine alle idee per tracciare un quadro verosimile del personaggio.” (pag. 91) Fortuna vuole che il suo Arturo viva da turco e per nome ha Kabib e che viva nella dimensione onirica d’immagine musico-visiva per una chitarra (reale) a firma di Giuseppe Chiari. Nel surreale però vi possono sostare firme come sul retro delle tele del Caravaggio e del Tintoretto.
Il Barone di Münchhausen m’è parso in quel racconto. Personalmente l’ho tagliato a metà come il suo cavallo, ora può con quest’ultimo continuare a nutrirsi all’infinito, come fa con i suoi racconti surreali e non solo, in quel ch’è detto per: la scomparsa di Ettore e Andromaca. Sì, caro Ignazio, surreale è il ritrovarsi nel metafisico di Giorgio De Chirico, in Caffè Greco, e poi sedersi a Trinità dei Monti. Non farà specie nel surreale passare anche da Cosenza e ammirare “la scomparsa” in quella splendida collezione all’aperto. Il suo libro l’ho letto d’un fiato, tutto, nelle sue centonovantasei pagine, ma di rimbalzo (pag. 132) ritorno a leggere, così, per averlo veduto sparato su di una palla da cannone e con un magnete in tasca per annullarne la gravità, sino ad Osaka.
Caro Ignazio, sono stupito ancora, m’accorgo ora del palloncino e del suo avere: (un’asticella ricoperta anch’essa di striscioline di lattine piene di colore, in piena torsione). Michele Lambo le ha offerte a Franco Spena come manciate di lettere. Spero siano come le mie, come questa mia divagazione. Un abbraccio.
“Scagliare la pietra in un abisso” È “sciogliere il sale nel mare”. (da, sketch-poesie)
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